Estate rossa
Taller del Copista La Lettera Morta
Buenos Aires, 1997
Tradotto per Dora Pentimalli
"mientras vociferaban la sangre y las gaviotas”
Efraín Jara
Compiuti quattordici anni mia madre mi propose di suicidarci; in
realtà, lei non usò questa parola, fu un semplice
suggerimento privo di patetismo. Umore nella penisola. Presenze
organiche. Mandibola di amorevole fissità.
Eravamo vicino a un porto, faceva caldo, andavamo a braccetto come si
usa camminare nei piccoli paesi; l’ombra dei nostri corpi segnava
la prossimità del mezzogiorno, la sua lentezza vegetale.
Fra quella madre e la figlia che io ero allora, tutto sembrava
essere troppo vicino. L ‘opposto a quel “Non avevamo niente
da dirci” che spinse Mersault a ricoverare la sua progenitrice in
un ospizio a ottanta chilometri da Algeri.
Tuttavia, un giorno emigrai in un’altra città, poi in
un’altra, e passarono gli anni ma non il mio amore verso quella
donna. Non so se il fascino risiedeva nelle storie o nella sua voce. Il
tono di chi accede a innumerevoli mondi senza bisogno di visitarli. Lei
conosceva il beneficio della parodia ma era anche esperta in intimismi.
Fucina di epitafi. Per miracolo nulla di cinico la possedeva. Grazie ad
un definito stile naif, coltivava la scienza
dell’indomesticabile. Come se avesse guardato fino allo spasimo
arrivando a vedere che era una truffa il matrimonio, una desolazione il
celibato, una bomba a tempo essere donna, una follia praticare la
prostituzione, osceno dipendere da orari.
L’imitazione di questa modalità fuggitiva nei
confronti degli stereotipi e certa diffidenza di tutto tranne che
dell’attimo, proliferò in segreto. Mi offrì lo
strumento per agire con calma in situazioni inaspettate. Paesaggi di
giacinto e zolfo. Assente la sfumatura da teleromanzo in cui finisce
per cadere anche l’ideale più sacro.
Ma torniamo a quel compleanno: tra il molo e l’acqua
c’erano pochi metri di distanza. Posso ancora intuire il suono
dell’immensa superficie agitandosi contro la groppa delle navi.
Credo che il sole ci fece dimenticare l’idea. Nessuna delle due
alluse al timore del tradimento, nell’ipotetico caso in cui
qualcuno salvasse una delle due.
May be the sun è il tito di una canzone -il
cui testo appena ricordo aver scritto- che uno dei miei fidanzati
finì per aggiungere al repertorio di blues del suo gruppo.
Camminavamo lungo il molo convinte che da un momento
all’altro saremmo saltate, non con l’obiettivo di toglierci
la vita -piccoli particolari tra immortali- ma per suggellare un patto,
una nascita capovolta, la consegna che più tardi sarebbe stata
lo stendardo della mia generazione: “Vivere pericolosamente fino
alla fine”.
Amori e sangue. Come immaginare che una scena equivalente era stata diretta da Jean Vigo in L’Atalante,
e per un’altra ci sarebbe voluta una guerra etnica perché
Kusturica filmasse -sotto le acque del Danubio- la giovane sposa
nuotando col vestito da sposa e tiara di fiori.
Memoria di palipsesto. Per molto tempo ho pensato que quella
mattina, una delle due aveva avuto il pensiero di sviare il proposito
ma non ho mai saputo chi. Certe volte penso che l’idea di saltare
fu uno dei tanti pensieri che io avevo di solito e che mia madre
ascoltava come un lettore docile, senza fare commenti né
rimproveri, soltanto muovendo la testa soavemente e chiamandomi col
diminutivo.
Con tre o quattro frasi di alcuni poeti, Nietzsche come guida
spirituale e un cappotto di pelle, andai a studiare in una città
cento volte più grande di quella dove ero nata. Creatura di
carne. Pochi mesi più tardi, iniziata alla corrente
dell’epoca, quando ancora non esistevano eredità di questo
genere, ebbra di cielo sentì que ero figlia di una hippie.
Benedetta da una libertà apocrifa, oscillando tra
l’universo ideologico della rivoluzione permanente e i veli della
magia mescalinica, la mia visione dei fatti era surreale. Inutile
sommare aneddoti: ciò che altri credevano esotico, a me sembrava
inevitabile. Nel parlare, la mia lingua come forbice ritagliava
avvenimenti, introduceva nell’albero bronchiale piccolezze, in
modo che ciò che veniva detto veniva anche disdetto, farcito o
morso lasciando in sospeso la storia, interminabile come Le Mille e una
Notti, salvo che io solo pretendevo raccontare una notte, così
come oggi mi sono proposta di tornare sul malinteso di May be the sun, fedele al ritmo, alla confusione, agli equivoci.
Di fronte a quella difficoltà, di potermi separare
dalla nebbia -logica onirica, diafana, fluida e ostinata- scelsi di
dosificare la sua natura intercalando dati culturalisti. Dovevo
antepormi all’evidenza dei miei vaneggiamenti, rendere
intelligibile il paradossale.
Lentamente, come chi possiede discorsi, uno crudo e l’altro
cotto, quello crudo a fuoco lento divenne carne della mia scrittura.
Magra carne sprovvista di ali. Salmuera sulla sintassi. Blake diceva:
“Chi desidera e non opera genera peste”. Adagio che tornato
al molo condanna l’evitato. Come se esistessero tormenti non
retrospettivi. Come se gli aneliti addormentati avessero la
densità d’una remora, una barnacle, che impedisce di
avanzare attraverso la notte, attraverso la peste per nutrire le sue
croste e far vibrare nelle arche il guazzabuglio di dispiaceri e
cianfrusaglie.
Quel mattino, altro discorso che sicuramente ci avrà
attratto perche uscimmo dal porto per andare a cercare un disco di Kurt
Weill ed il mio regalo. Amante dei felini, pur essendo estate, scelsi
senza esitare. Non volevo frammenti. Ebbi l’esigenza di vedere il
pezzo con cui avrebbero confezionato il mio cappotto.
-Felis Pardalis- disse il pellettiere prendendo da una borsa bianca un gattopardo.
La pelliccia copriva, arrivando sino alla vita, appena il petto e la
schiena. Promise di darmi le zampe e la coda. Per cosa?
-Non si sa mai- lo ascoltai dire a mia madre.
Ne feci un gilet -le maniche tessute in lana- affinché
quell’animale si unisse alla mia vita come aderisce una mucosa
all’imene. Corde dove la bocca dorme.
Il pellicciaio esordì ammonendomi per il mio gusto eccentrico.
Presto ti pentirai! e previa tenace insistenza per misurarmi
l’ascella, finì per accedere alla richiesta di vendermi un
manichino.
Quando due settimane più tardi andai dal pellettiere,
lei non potè accompagnarmi perché era nella sala
d’attesa di uno specialista in malattie senza diagnosi. Quel tipo
di dottori che fondano la loro efficacia sulla fiducia del paziente.
Molte parole ed orari incerti. Forse non lo sapeva, e io nemmeno,
però entrambe avremmo dovuto sospettare che quell’uomo con
le sue congetture la innammorava. Credo che la mia simpatia per lo
psicoanalisi radica in quel gurù, insieme archeologo e detective
dell’anima.
Con scarsa esperienza spaziale deambulai fino alle sette di sera inoltrate.
Portavo il cappotto in una scatola ed il mezzo corpetto scartato, in
modo che quando entrai in un cinema occupai due posti.
Cinepresa fissa. Svuotamento del melodramma. Situazione ottica
pura. Immagine tempo. Larghe prese esterne. Spazi vuoti, distaccati,
radi. Fuso por simple cut.
Verso la metà del film, non ho potuto resistere la tentazione di
vestire il manichino. Carbone al fuoco. Occhi di pietra imanata.
Un punto vale più che la figura umana, ha confessato Kandinsky.
Stregoneria di illuministi?
Chi osa smentire la leggenda dei delfini rosa? Amabile solitudine, nutrice di fanthomes, ride, vola senza fretta.
Trasmettevano un film giapponese in cui un progenitore veniva
disprezzato dai suoi figli. Padre nostro che non sei nei cieli. Lo
vedevano timoroso e ossequente, fingendo teneri modi cuando incrociava
il suo capo alla stazione di treni. I bambini erano privi di nozioni
sul potere. Erano diretti, bene intenzionati, ragionevoli. Non capivano
il motivo per cui un uomo grande si metamorfoseava a quel modo.
-Noi andiamo a scuola per obbligo.
Perché chini la testa di fronte a Iwasaki?
-Perché è l’amministratore della mia compagnia.
-Devi soltanto diventare amministratore.
-Iwasaki mi paga.
-Non lo accettare, pagagli e che lavori lui.
Grazie ad una tolleranza commuovente, dopo diversi scompligli, l’armonia della famiglia ricuperava il suo corso. Samsara, rulette del malessere per il buon vivere.
Il porto, la pelletteria, il cinema e la sala d’attesa
-alla quale ritornai con timore perché il film era durato assai
più del previsto- era a un’ora di distanza dalla
località dove abitavamo.
Quando arrivai allo studio, il dottore stava ancora visitando. La porta
a paravento si apriva sul giardino dando illusione di frescura.
Assolto il ritardo. Una scolara timida col braccio levato.
Provai a immaginare lo studio ma senza risultato. Un pensiero è
un coagulo. Meglio non pensare.
Poema inconcluso.
Vediamo, vediamo, qualche distrazione. Mito reversibile della grazia.
Quì ci sono delle riviste... La maggioranza degli articoli
faceva leva sul dolore del presidente. Messe, statue, commemorazioni.
Natale senza Evita, tristezza nei contingenti che viaggiano a
Chapadmalal, Bariloche, Río Tercero; cortei di orfani, lutto
nazionale.
-Queste riviste sono di due anni fa. Non ne ha di nuove -domandai alla segretaria.
Solo in quel momento mi avvisò che mia madre se ne era andata.
Era notte; abbracciavo il manichino, con l’enorme
scatola adesso anche scartata, cominciai a camminare verso la
pelletteria sapendo che sicuramente sarebbe stata chiusa. Il colore
evolve nell’oscurità.
Cercai di allontanare uno a uno i pensieri che mi invadevano.
Dialogavo con quei missili, man mano li disinnescavo. Per ogni attacco
una difesa finché si moltiplicarono e mi decisi a smettere di
lottare.
Agitazione, sudore nelle ascelle di pubere assonnata. E’ arrivata
la tiepida ora del disgelo. Non voglio che mi tocchi ancora.
Lo fece fingendo di misurare. Il centimetro come scusa. Occhi al di
sopra degli occhi. Serio come un giudice. Frasi sciolte. Un chicco
d’uva nella bocca, sdolcinandosi.
-Queste ragazze credono di essere così importanti.
Tua madre è molto più bella.
-Lo so.
-Ma a Lei chi le ha insegnato a mentire?
-Non la vizi così , signora.
-Oggi.....
-E così oggi è il tuo compleanno?
Cambio di tattica. Mestiere: maestro tattile. Il piacere a portata di mano.
Cambiai marciapiede temendo che il pellicciaio fosse sull’uscio del negozio.
Sospiro scarlatto. Dovrei pregare perché sia lì fermo e
stò attraversando la strada. Scienza dell’equilibrio delle
forze. Avrà le stesse attenzioni di fronte ad ascelle umide?
Qualcosa mi disse quando mi diede il manichino. Ce l’aveva dentro
a un armadio vicino al deposito refrigerato. Volle che lo seguissi. I
vecchi fanno sempre il medesimo gioco. La mia esperienza è vasta
sotto questo profilo: non esite altra paternità al di fuori di
quella illegale.
-Ti piacerebbe essere la mia bambola?
Senza risposta.
Con dispiacere vide che il capo non richiedeva nessun ritocco.
-Arrivederci, arrivederci.
Non potè trattenermi.
- Per Bacco, dimenticavo di darvi le pezze!
- Non le voglio.
L’insegna al neon era accesa. Le botteghe e i negozi vicini erano chiusi.
Nessun indizio. Poca gente. Le città grandi hanno modi di vita
piuttosto rigidi, si cammina per le vie pedonali o lungo la riviera del
fiume.
A un tratto mi colse un piacere particolare. Mi sembrò di aver
vissuto fino ad allora su una striscia senza fine di avvenimenti
più o meno prevedibili, una striscia statica dove il tempo si
susseguiva in catena. Quella notte,
carica degli unici oggetti che desideravo avere, avevo rotto il
circuito, prendevo dimensione della mia persona, sciolta come sempre
era stata ma ora libera dell’inganno della compagnia.
Un giorno mi porterò lontano molto lontano. Un istante lirico
spezzato subito dall’insidia del corpo. Fiore di ibiscus granata.
Malesseri di sopravvivenza. Se fossi fuggita da un collegio mi
starebbero cercando. La fotografia sui muri. Organizzare una fuga
è un’avventura; perdersi, una fesseria. Non scordare la
tirannia. Così presto son tornati i missili? Qualcosa è
cambiata, adesso attacco io. Anche lei sarà agitata. Suspense.
Cantilena di tentazioni.
Caleidoscopio. La curiosità dell’amore. Come sarà il suo spavento?
Tornai da sola coll’ultimo bus della notte. Ci volle
parecchio per arrivare alla stazione, posto dove avrei dovuto andare
quando la segretaria mi disse che mia madre non c’era. Montagne
di aver dovuto? No, un fiocco, un fiocco di neve. Vanità
vanitosa e inevitabile. Voglia di crescere. Saggezza della dipendenza.
Neve nelle sbarre della tua gabbia: Felis Pardalis. Ci
sarà tempo per partire. Luce tragica. Gli uccelli cominciano a
festeggiare il dolore. Unicamente in assenza di vincoli di sangue, di
fronte ad un tempo fuori dal tempo, l’ingranaggio che alimenta e
avvelena morderà le carrucole fino a sbranare la
cattività.
La stazione era piena di soldati di leva abbronzati dal sole del rigore.
Espressione all’erta, l’assurdo nelle viscere.
La stazione era piena di soldati di leva che più tardi sarebbero
comparsi come personaggi. Anatomia del destino, acciaio e miele,
transizioni sottili.
Una storia per ogni personaggio: Juan Cruz cavando una fossa e morendo
con quella sorte passeggera che si chiama voluttuosità.
Assetata e spettinata. Stanchissima, goffa e confusa. Senza
esperienza erotica ne artilugi di genere. Provvista del fascino di un
viso che guardava di fronte, ma in nessun momento vittima della
parentela né di vizi di classe,
mi avvicinai alla biglietteria ed attesi.
Qualcuno capì che mi ero persa, qualcuno pagò il mio
biglietto. Un atto senza strategia: dormire. Non nelle labbra di un
poeta ma sul petto di un soldato che aveva piattole sulle sopracciglia.
Giuro che la scusa di genitale con genitale è un altra
invenzione puritana. Contagiano gli angeli.
Il mio salvatore mi svegliò poco prima
d’arrivare. Abitava vicino alla statale con la sua famiglia di
contadini. Prese il manichino e lo mise sul sedile.
La nobiltà non s’improvvisa. Un avvertimento utile.
-Tieniti sveglia.
Anni dopo il soldato diventerà Leopoldo: figlio di un fattore e un’idiota.
Leopoldo userà come nesso il cappotto per raccontare un duello.
Vestiti di bianco, pistole, padrini. Due faccie gravi a dodici metri di
distanza. Poco importa che arrivino gli amanti in un qualche tempo di
futuro.
Attraversai la piazza decisa a non dare spiegazioni. Muto il
campanile. Ebbi l’esigenza di occultare, non di mentire. Lo
sguardo fisso in terra. Silenzio.
Erano ancora più alti, più forti. In vista il diritto dei
padroni. Loro avevano ragione. Gridavano la loro impotenza. Non li
avevo mai visti così uniti: stolti, deboli, estranei.
L’onore di Hutteldorf. L’elenco di punizioni mi fece
tenerezza. Un minimo rispetto davanti all’impotenza per il regno
perduto.
Domandano e rispondono: timorosi, assolutamente fragili. Domandano e
rispondono, non ascoltano, ogni cosa che sentano gli sembra
pensata per farli soffrire.
Lei aveva cercato di evitarlo, camminò per le vie
cercandomi. Andò alla stazione, dal pellicciaio,
all’inferno. Non ci poteva credere che era sola, minacciata.
Invece di aspettare preferì fare la denuncia. Parlò con
mio padre, disse che ero scappata. Triste astuzia. In una situazione
equivalente io non avrei fatto così. Ricevevo da lei ciò
che non aveva il coraggio di chiedermi, slealtà: che mi
scusassi, che mentissi. Qual è l’argomento che giustifica
una delazione? Non si uccide un uomo come un lupo.
Sarebbe stato facile accusare il pellettiere. Ripetere la caccia: tedesco-ebreo-razza-degenerazione.
Insieme a quel pensiero la mia mano ricordò il gesto di
spiegazzare il programma del film. Non volevo giustificare niente.
Verbi elementari. L’immagine di I bambini di Tokio venne alla mia memoria. Allora ancora non conoscevo l’abilità di ogliere gli abissali effetti di piccole condotte.
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